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In copertina:
Eros Pellini
Pattinatrice, 1951
bronzo - cm 18,5x12x42 |
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GALLERIA PONTE ROSSO
20121 - Milano via Brera 2
Tel./Fax 02/86461053
E-mail:ponterosso@ponterosso.com
Corrispondenza: via Monte di Pietà 1/A
Orario di apertura: 10-12.30 / 15.30-19
Chiusura: domenica mattina e lunedì |
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La forma e l'emozione
Eros Pellini (1909 - 1993)
sculture
Attilio Melo (1917)
dipinti
Dal 5 al 23 novembre 2003
Inaugurazione
mercoledì 5 novembre alle h 18
Un buon sentore di civiltà artistica, sobria, solida,
fatta da honnête hommes, promana da questa mostra: che è racconto, primariamente, d'una
amicizia lunga e fervida.
Eros Pellini, classe 1909, e il più giovane Attilio Melo, sono figli di Brera: ovvero
d'un clima, d'una identità, che è contata, e ancora conta, più dello scapicollarsi del
dibattito novecentesco. L'uno scultore, l'altro ritrattista e paesista in pittura, portano
nel secolo trascorso l'orgoglio altoartigianale, la severità del mestiere, un'idea di
gusto che non vogliono contrapporsi, per superamento, alla lezione dell'Ottocento, ma da
essa evolvere, con juicio, sino a metamorfizzarsi in un probabile umore moderno.
Guardo le sculture di Pellini, che sin dagli anni Trenta si misurano con le forme serrate,
narrativamente scabre, di Martini, insieme non immemori del crepitare delle superfici,
dello sfinirsi sottile delle forme che è della lezione scapigliata così come della
francese. Sono corpi, sempre, in una logica di genere dalla quale è superfluo
discostarsi: nudini, danzatrici, in un repertorio di pose tese sul filo dello stupore
emozionato, ma lungamente filtrato nel vaglio mentale, del corpo, della forma. E' stupore,
come una rivelazione, nutrito da una sorta di amore religioso per l'immagine di vita:
Pellini non laicizza la scultura, men che meno ne fa anatomia teorica; ancora, per lui,
creare vuol dire assai più del semplice fare.
Ciò che per lui è l'identità plastica del corporeo, è per Melo la luce nella visione.
La sua rosa di riferimenti è sicura, risiede tutta - tra le filigrane del grande
luminismo veneziano che in lui è, verrebbe da dire, retaggio di sangue - nel paesismo tra
Ottocento e Novecento, in un vero di natura che si fa fasto luminoso, pulsazione poetica
che dalle
Attilio Melo - Milano, via Brera sotto la neve, 1998 - olio cm 65x50
cose non trascorre, ma ne è lievito e spirito: vogliamo dire, per intenderci, un Longoni,
un Reycend, un Carcano e, perché no, un Tosi?
Anche Melo assetta la propria personalità entro perimetri sicuri di genere, il ritratto,
il paesaggio. Ma par distillarne qualcosa d'altro, rispetto alla mera adesione a
protocolli di modo. E' la luce che intride, appena offuscata dalle ombre prime, la neve su
Brera, o il baluginare d'Oriente nelle cose veneziane, dai fremiti guardeschi ma di salda,
immediata, sensuosa partecipazione al dato visivo.
Come Pellini nei recinti sicuri della plastica di corpo, così Melo non avverte la
necessità di épater, di porre in discussione l'apparato dei codici. E' il miracolo della
luce ad attrarlo, quel mutare che è stato d'animo e non fisiologia percettiva, quel
sentimento delle cose che ha il coraggio di non ammantarsi d'altro che del proprio ridarsi
fragrante, posa dopo posa.
Consapevoli, entrambi, sono di porsi così in una gora del dibattito artistico, in una
inattualità che vien letta anacronismo. Ma sono certi, altresì, che la gioia fremente e
feroce del plasticare materia finché non ne nasca una persona, che l'ansia emozionata di
far precipitare lì, sul quadro, una stilla di luce autre, è l'unica ragione che da
millenni andiamo cercando nell'arte: comunque.
Dunque sanno bene, per dire con le parole di saggezza proprio di uno dei grandi della
modernità, Mies van der Rohe, che è "molto meglio essere bravi, che
originali".
Flaminio Gualdoni
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